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DOSSIER // Licio Gelli e la P2: quel terremoto politico di 40 anni fa

Sono passati quarant’anni, ma sembra appena ieri.

Le idi di marzo del 1981 furono il primo colpo di ariete contro la coalizione di “grande centro” che aveva governato l’Italia dal 1947:

-quella che l’aveva “agganciata” all’Alleanza Atlantica e alla Nato e aveva scommesso sull’integrazione europea occidentale quando l’orientale, con la connivenza attiva del Partito comunista italiano, era il “blocco di Varsavia”, inchiodato al mito del “socialismo in un paese”: l’Urss di Stalin, Kruscev, Brezvev…

-Nel 1980 i partiti italiani “occidentali” stavano riemergendo dalla catastrofe elettorale (l’impetuosa avanzata alle “politiche” del 1976 del Partito comunista, al potere in molte regioni dalle amministrative del 1975) e dalla succuba “unità d’azione” PCI-DC durante la prigionia di Aldo Moro, infine assassinato.

Il 17 marzo 1981 alcuni magistrati della Procura della repubblica di Milano ordinarono la perquisizione dell’abitazione e degli uffici di Licio Gelli (Pistoia, 21 aprile 1919-Arezzo, 15 dicembre 2015), maestro venerabile della loggia “Propaganda massonica” n. 2.

Uno di essi, Gherardo Colombo, ne scrisse in “Il vizio della memoria”.

Cercavano documenti sui rapporti tra Gelli e il banchiere Michele Sindona, “in odore di mafia”.

Nella sede della ‘Gio.le’, a Castiglion Fibocchi (Arezzo), un’azienda di Gelli, i militi rinvennero carte e un brogliaccio con nomi degli iscritti alla loggia P2, estranea all’indagine.

Dopo frenetico consulto telefonico con Milano le carte furono sequestrate, trasferite, protocollate e fotocopiate.

Per Colombo provavano che la Repubblica era minacciata. Da chi?

 

Secondo il magistrato ad assediarla erano quanti dovevano garantirne la sicurezza: servizi segreti, alti gradi delle Forze Armate, vertici dello Stato, parlamentari dei partiti di governo, giornalisti, professionisti. Non tutti, ma una parte: i “deviati”.

Una Venerabile trama,come Giorgio Galli intitolò un saggio di molti anni dopo.

O “il doppio Stato” secondo “storici” e complottologi che fanno risalire la devianza ai “vizi originari” dell’unità nazionale e via risalendo sino alla cacciata dal Paradiso Terrestre.

L’elenco dei “piduisti” comprendeva personalità di indiscussa fede democratica; però gli estremisti di opposte fazioni e giornalisti dalla penna versatile narrarono una verità del tutto diversa all’opinione pubblica.

Prendendo a pretesto Gelli e la massoneria alimentarono la psicosi del colpo di Stato, aleggiante nell’Italia del terrorismo politico. Raggiunsero l’obiettivo.

Il presidente del Consiglio dei ministri, il democristiano Arnaldo Forlani, si dimise.

Fu sostituito da Giovanni Spadolini, esponente del minuscolo Partito repubblicano italiano, con molti militanti massoni e persino qualche iscritto alla P2.

Spadolini annunciò che bisognava affrontare quattro emergenze, a cominciare dalla P2.

Dal quel corto circuito politico-mediatico nacque la commissione dei “saggi” , istituita da Forlani. Seguirono lo scioglimento della P2 da parte del Parlamento (senza alcun fondamento giuridico né storiografico: una decisione meramente politica, che mise a nudo lo sbandamento emotivo dei “centristi” pressati dalle Estreme) e l’istituzione della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2 che dopo un paio d’anni si chiuse con sei diverse relazioni: altrettante ‘verità’. Negli anni seguenti furono pubblicati gli Atti dei suoi lavori: 120 libri di quasi centomila pagine, oggi dimenticate.

Che cosa rimane di quella tempesta?

Sarebbe errato dire che tutto sfociò in nulla. Tante vite e oneste carriere furono stroncate. La massoneria finì e rimane sotto scacco (nella Relazione della Commissione antimafia del 2017 la deputata Rosy Bindi la definì “sostanzialmente segreta”, mentre non lo è affatto).

La libertà d’associazione divenne incerta (lo è sempre di più). Ma soprattutto entrò in crisi irreversibile il ventaglio partitico dalla destra moderata al partito socialista, passando attraverso socialdemocratici, repubblicani, liberali e democristiani di formazione e vocazione “occidentale”: quel “grande centro” che dieci anni dopo fu definitivamente annientato da “Mani pulite”, sotto la cui pressione la sinistra democristiana si consegnò mani e piedi legati all’ex Partito comunista, che completò il disegno avviato nel marzo 1981 e fu il vincitore di quella partita. Puntava al Potere Supremo. Oggi conta il 20% dei voti validi. Una miseria.

In realtà l’“affare P2” fu una manovra politica, intrapresa da quando nel 1975 un magistrato torinese su denuncia anonima (!) chiese accertamenti su un Licio Celli (sic!), risultato perfettamente “in regola”, e il capogruppo del PCI alla Camera dei deputati, Alessandro Natta, nel 1978 sollecitò chiarimenti sulla P2 e la massoneria.

Dal 1981 l’offensiva continuò sino alla richiesta di incriminazione per attentato alla Costituzione a carico del Presidente della Repubblica Francesco Cossiga avanzata dai parlamentari del PCI nel 1991.

La strategia dell’unico colpo di stato avviato e attuato con metodica tenacia emerge dagli appunti vergati da Tina Anselmi fra il 30 ottobre 1981 e il 17 maggio 1984, curati da Anna Vinci per Chiarelettere (2011).

Apparentemente non aggiungono nulla di importante a quanto si sapeva; in realtà, però, forniscono la chiave di volta del regime che ne nacque.

L’on. Anselmi narra che, quando fu invitata da Nilde Iotti, deputata del partito comunista italiano e presidente della Camera, ad assumere la presidenza della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2, le bastarono quindici minuti per accettare. In quel quarto d’ora telefonò al celebrato democristiano Leopoldo Elia, presidente della corte costituzionale, che la incoraggiò ad assumere l’incarico propostole da Iotti sia perché entrambe erano state partigiane, sia nel timore che il presidente del senato, Amintore Fanfani, avanzasse un proprio candidato, come era naturale per la priorità della Camera Alta rispetto a quella dei deputati. Anselmi aggiunge che due mesi dopo l’insediamento, il 5 dicembre 1981, lo stesso Elia le dettò la linea da seguire e i nomi degli “esperti” ai quali rivolgersi.

Carlo Moro, Fulvio Mastropaolo, Pierpaolo Casadei Monti, Eugenio Selvaggi, Tommaso Morlino: nessuno dei quali (che si sapesse o si sappia) aveva pubblicato un solo rigo sulla massoneria. Ma la commissione non aveva scopi culturali o storiografici, bensì politici: l’annientamento delle componenti razionali e “occidentali” del Centro a vantaggio dei catto-comunisti.

Elia fece di più. Secondo Anselmi la Commissione doveva scavare nella presidenza Saragat, indagare sull’influenza della massoneria contro la candidatura di Aldo Moro alla presidenza della Repubblica e sull’ultimo viaggio del leader democristiano negli Stati Uniti d’America. Infine Elia le dettò il “compito storico: con la giustizia determinare il cambiamento di una parte della classe dirigente del paese, compresa quella della Democrazia cristiana” (p. 18). È esattamente quanto si è verificato per decenni: rovesciare la classe dirigente “con la giustizia”, cioè utilizzando inchieste giudiziarie e processi non solo mediatici. Cominciò con l’“Epurazione” del 1944-1947, che introdusse norme retroattive, peggio che nelle “monarchie assolute”.

La Commissione sulla P2 precorse quanto poi venne perfezionato da Tangentopoli: l’azzeramento di Psi, Dc, Psdi, Pli e Pri, i cui esponenti di spicco furono emarginati. Tra “sommersi e salvati”, alcune loro frange s’intrupparono nell’ex Partito comunista italiano il cui vertice rimase compatto e indenne.

Dagli appunti si constata che Anselmi (come la maggior parte dei “commissari”) brancolò nel buio tra rivelazioni, sussurri e grida che ne accompagnarono i lavori.

Sotto la data 17 dicembre 1981 essa annota per esempio che, tramite la sorella Susanna, Gianni Agnelli le rivelò che “il vero capo della P2 era Lelio Lagorio”, deputato socialista, ministro della Difesa, per breve momento presidente del consiglio in pectore e uomo di specchiatissima dirittura democratica.

L’asserzione è talmente assurda da far dubitare dell’attendibilità degli appunti o da domandarsi se la Anselmi capisse fischi per fiaschi.

Anselmi fece da ricetrasmittente delle dicerie che dall’orecchio passano sulla carta: “I due De Benedetti (Carlo e Franco) hanno fatto domanda d’iscrizione alla P2 a Torino”.

A rischiararle la via arrivarono anche sedicenti “massoni democratici”, cioè da alcuni “radiati” che da anni riempivano le cassette delle lettere di parlamentari, redazioni di quotidiani di sinistra e settimanali scandalistici con chili di “rivelazioni”.

Usavano i media per vendicarsi e offrivano ai massonofagi la “prova” di quanto fosse perversa la Libera Muratoria: golpista, stragista, corruttrice.

Tra i tanti massoni democratici, uno assicurò che “Andreotti è nei fascicoli di Gelli non trovati. Gelli entrava a Palazzo Ghigi senza riscontri”.

Naturalmente la staffetta partigiana scriveva, ghiotta, e aggiungeva: “L’avvocato Agnelli dava i soldi senza essere massone?!”. Benefattore senza secondi scopi?

Il 6 aprile 1982 Anselmi sintetizzò i pareri dei tre saggi ai quali Forlani aveva affidato il parere sulla segretezza della P2. Secondo Crisafulli “non è solo la P2 segreta, ma tutta la massoneria”.

A giudizio di Lionello Levi Sandri la P2 era politicamente pericolosa. Aldo Sandulli  affermò invece che “la loggia non aveva finalità politiche”. La maggior parte dei testi ribadì infatti che sia Gelli sia i piduisti non avevano affatto l’intento di sovvertire un quadro istituzionale e politico nel quale si riconoscevano; semmai volevano consolidarla.

Anselmi annotò puntigliosamente quanto potesse servire alla guerriglia tra correnti e capibastone del suo partito e tra le varie componenti dell’arco centrista (DC, Psdi, Pri, Pli), mentre sin dall’inizio dell’inchiesta dava per scontato che i socialisti erano impegolati sino al collo nella massoneria in combutta con gruppi della destra conservatrice, monarchica, incline alla restaurazione dei valori dello Stato. Non la sfiorava il sospetto che qualche comunista potesse essere interessato alla Libera Muratoria o esserne al vertice, come il calabrese Ettore Loizzo. Al riguardo si appagava delle sdegnate proteste di quanti smentivano fermamente che qualche compagno potesse essere stato mai tentato dagli ideali di libertà, uguaglianza, fratellanza…

Tra le molte “testimonianze” annotate da Anselmi spicca per superiorità quella del democristiano Adolfo Sarti, ministro di Grazia e Giustizia (e già alla Difesa, all’Istruzione e al Turismo, un “pontiere” con Cossiga e Paolo Emilio Taviani), che conobbe Gelli tramite Roberto Gervaso:

“Il discorso sulla massoneria era finalizzato a offrire un’area di incontro e confronto fra le aree culturale e politica della mia parte [la Democrazia cristiana, NdA] e quella di parte laica. Sembravano anche essere venute meno le pregiudiziali religiose sulla massoneria. Decisi di siglare l’adesione alla massoneria, spinto prevalentemente da curiosità culturale. Feci la revoca per telefono, parlando con Gelli (…) Non ho mai fatto rinuncia scritta, nell’anno successivo in cui Gelli mi scrisse annunciandomi l’accettazione”. La scarna deposizione di Sarti (il cui Diario continua a rimanere inedito) è la sintesi dell’intera vicenda.

A differenza di quanto venne detto ed è ancora ripetuto, la Loggia Propaganda massonica n. 2 non fu affatto la metastasi della massoneria, né stava alla Libera Muratoria come le brigate Rosse al Partito comunista, contrariamente a quanto venne detto quando non v’era più bisogno di “difensiva”: un giudizio antistorico e autolesionistico, tanto più se pronunciato da dignitari dell’Ordine.

Il punto è che dal 1945 l’Italia era e in larga parte rimane un Paese in cronico ritardo sull’“Occidente”.

Chiuso nella tenaglia di clericali e stalinisti, con una pesante eredità di fatuo nazionalismo, che è altra cosa dall’identità nazionale, esso era dominata da una sottocultura minoritaria nella qualità delle idee ma maggioritaria nel controllo del potere (come del resto accade ancor oggi). I suoi idoli erano gli “anti”: Alfredo Oriani e Antonio Gramsci, Piero Gobetti e magari don Milani, a tacere di Fidel Castro e di Che Guevara. In quel serraglio ideologico era davvero ardua l’opzione massonica, mentre imperversava la contesa fra Terza e Quarta Internazionale, tra URSS e Cina, tra i movimenti di liberazione armati dall’Africa all’America centro-meridionale tramite Cuba e il caos nel Vicino e Medio Oriente.

In quel groviglio il direttore del Cesis affermò che “molti dirigenti dei servizi segreti aderirono alla P2 per controllare Gelli”, che però secondo altri controllava i servizi segreti italiani per conto della Cia o del KGB o di vari altri Paesi o magari di schegge del terzo Reich… Giro-girotondo, come è bello il mondo.

In tale scenario Anselmi appuntava che il banchiere Roberto Calvi “era di un ermetismo non comune. Non diceva nemmeno a se stesso le cose”. Chi non parlava, chi non vedeva. Era il caso della Banca d’Italia che, a giudizio di Orazio Bagnasco, “banchiere, socialista” secondo Anselmi, “non presupponeva il crac (di Michele Sindona) e così nessun altro uomo di finanza”. Non sorprende, del resto. La Banca d’Italia non mai ha “presupposto” alcuna delle crisi finanziarie che per decenni hanno sconvolto la vita economica del Pianeta e non ha fornito alcuna ricetta per uscirne se non i consigli dell’ovvio buon senso. Perciò fu deciso l’affossamento del banco Ambrosiano, come lucidamente previsto da Michele Sindona e annotato da Anselmi: “Nonostante il Banco ambrosiano sia solido, per ragioni ideologiche si liquiderà il Banco, perché non si vuole una presenza privata” (p. 285).

I “Diari segreti” di Tina Anselmi scoperchiano l’enormità delle prevaricazioni compiute dalla presidente della commissione parlamentare d’inchiesta che operava con i poteri di magistrato e con coperture politiche e quindi al di fuori di ogni norma. Così essa decise perquisizioni e sequestro di documenti (poi pubblicati senza che gli interessati ne avessero notizia e potessero eventualmente smentire) e sempre molto tardivamente si accorse della fuga di notizie, del fiume di carte che dalla commissione passava ai giornali, tanto che la sua stessa relazione conclusiva venne pubblicata con largo anticipo come supplemento a un settimanale.

Anselmi disse per decenni che la P2 è viva e lotta contro la democrazia. Una giaculatoria ripetuta da tanti, a conferma dell’arretratezza culturale di una parte importante della carta stampata e della necessità di mettere fine una volta per tutte all’uso strumentale dei temi di P2 e piduista quali capi d’accusa, tanto più che dal 1994-1996 la magistratura chiuse la partita assolvendo in via definitiva Gelli e i cosiddetti piduisti dall’accusa di cospirazione politica.

A quarant’anni da quelle “idi di marzo” il mito del complotto continua però a fare comodo. Elude la fatica di fare i conti con la storia e di varare un vero piano di “Rinascita”.

-da art. di Aldo A. Mola del  28 Febbraio 2021-