Amministrazioni, addetto stampa, portavoce del sindaco / Pro memoria per certi politici

usChe la libertà della informazione sia essenziale allo stato democratico è incontestato da sempre: le proclamazioni sulla libertà di espressione e di stampa nascono, come è noto, insieme al moderno costituzionalismo.
Più recente e meno scontata è, invece, l’idea che l’informazione sia anche un aspetto essenziale del rapporto tra lo stato, le sue articolazioni, le amministrazioni pubbliche in generale e i cittadini, e che quindi sia anche una funzione, un compito insopprimibile di ogni articolazione dei pubblici poteri.
Sono gli statuti regionali adottati a partire dagli anni settanta del secolo scorso a riconoscere per primi il ruolo centrale della relazione informativa (bidirezionale) tra pubblici uffici e cittadini come presupposto per la creazione di una amministrazione aperta, trasparente e democratica (art. 8 Statuto Piemonte; artt. 5 e 62 Statuto Basilicata; 56 Statuto Calabria; 48 Statuto Campania; 5 Statuto Emilia-Romagna; 4 Statuto Liguria; 5 e 54 Statuto Lombardia; 32 Statuto Marche; 42 Statuto Molise; 4 Statuto Toscana; 11 Statuto Umbria; 35 Statuto Veneto).
Ed è sulla scia delle proclamazioni dei primi statuti che la Corte costituzionale, nell’importante sentenza n. 348 del 1990, per la prima volta riconosce che ogni articolazione dei pubblici poteri, e, in particolare, ogni soggetto di autonomia non può non avere, tra i suoi compiti, anche quello di realizzare un corretto circuito informativo con la comunità di riferimento.
Le parole utilizzate dalla corte costituzionale sono attualissime ancora oggi e vale la pena di riportarle testualmente.
«L’informazione, nei suoi risvolti attivi e passivi (libertà di informare e diritto ad essere informati) esprime (…) una condizione preliminare (o, se vogliamo, un presupposto insopprimibile) per l’attuazione ad ogni livello, centrale o locale, della forma propria dello Stato democratico. Nell’ambito di tale forma, qualsivoglia soggetto od organo rappresentativo investito di competenze di natura politica non può, di conseguenza, pur nel rispetto dei limiti connessi alle proprie attribuzioni, risultare estraneo all’impiego dei mezzi di comunicazione di massa. Questo impiego, per quanto concerne le Regioni, quali soggetti costituzionali investiti di competenze sia politiche che amministrative, si riferisce, in particolare, a due aspetti: quello delle informazioni che la Regione è tenuta ad offrire ai cittadini in ordine alle proprie attività ed ai propri programmi e quello delle informazioni che la Regione può ricevere dalla società regionale e che concorrono a determinare la partecipazione di tale società alle scelte attraverso cui si esprime l’indirizzo politico e amministrativo regionale».
Siamo nel 1990, l’anno in cui nasce la prima legge organica sul procedimento amministrativo che consacra la trasparenza e la partecipazione come aspetti essenziali del procedimento amministrativo: questa legge, e le riforme che seguiranno per tutti gli anni novanta, sono figlie di una rilettura della pubblica amministrazione che la dottrina più innovativa (grandi studiosi del diritto pubblico ed amministrativo come Giorgio Berti, Feliciano Benvenuti o Massimo Severo Giannini) aveva iniziato a rielaborare sin dagli anni settanta, sulla scorta dei principi costituzionali (l’autonomia e il decentramento del’art. 5, da un lato, l’imparzialità e il buon andamento dell’art. 97 dall’altro), e che punta a rinvenire una legittimazione democratica dell’amministrazione, al di là del rapporto con il vertice politico, anche – e forse soprattutto – nel rapporto diretto che l’amministrazione costruisce con la società, appunto, nel procedimento amministrativo, attraverso gli istituti di partecipazione e l’esercizio della funzione conoscitiva; in altri termini, attraverso lo scambio di informazioni.
E’ l’idea di una amministrazione autonoma e distinta rispetto al potere politico, che ovviamente segue le direttive del vertice politico, ma che recupera una autonoma legittimazione democratica, appunto, nel rapporto diretto con gli amministrati attraverso gli istituti partecipativi.
E’ una visione radicalmente innovativa rispetto a quella tradizionale, secondo cui la legittimazione democratica dell’amministrazione deriva solo ed esclusivamente dal suo essere sottoposta al potere politico: tale visione innovativa ha ispirato, oltre alla legge sul procedimento di cui si è detto, tutte le profonde riforme nell’organizzazione degli uffici che sono intervenute nel corso degli anni novanta e che sono accomunate dal tentativo di operare una netta distinzione tra i compiti, le funzioni, i poteri e le responsabilità dei vertici politici, e i compiti, le funzioni, i poteri e le responsabilità degli uffici tecnico – amministrativi; tra la funzione di direzione politica (che trova la sua legittimazione nel voto popolare) e la gestione concreta dell’attività amministrativa, affidata a professionisti legittimati professionalmente, selezionati attraverso procedure concorsuali e dotati di una relativa autonomia ed indipendenza rispetto ai vertici politici, autonomia ed indipendenza che sono il presupposto per la costruzione di un rapporto diretto con gli amministrati in conformità ai canoni costituzionali di buon andamento e di imparzialità di cui all’art. 97 cost.
E’ in questo contesto culturale che nasce la legge n. 150 del 2000: che da un lato è, indubbiamente, figlia di questa idea, dell’idea cioè che l’attivazione di circuiti di informazione e di comunicazione tra amministrazioni e cittadini è un aspetto irrinunciabile della democratizzazione dell’informazione; dall’altro, però, sembra rinunciare a portare sino in fondo le premesse culturali da cui muove.
Se infatti la premessa culturale del riconoscimento dell’informazione e comunicazione pubblica come funzione pubblica è l’idea di un’amministrazione distinta dalla politica, che trova una propria diretta legittimazione nel rapporto con gli amministrati, una logica, lineare e rigorosa applicazione di tale premessa avrebbe richiesto che tutta la legge sulla comunicazione pubblica fosse costruita su questa grande distinzione: la distinzione tra politica ed amministrazione e, quindi la distinzione tra comunicazione politica e comunicazione c.d. “istituzionale”.
E del resto, nel momento in cui si prevede la destinazione di significative risorse pubbliche all’attività di comunicazione, diviene assolutamente necessario distinguere nettamente tra la doverosa informazione che un ente svolge su se stesso e sulla propria attività e la promozione dell’immagine dei vertici politici di volta in volta chiamati alla guida dell’ente, in parole povere tra comunicazione pubblica in senso stretto e propaganda: tale distinzione è necessaria a tutela della stessa correttezza e dell’equilibrio della competizione politica, dal momento che non è ammissibile, e rappresenta una grave distorsione delle regole democratiche, che risorse pubbliche siano utilizzate per fini più o meno propagandistici.
Non che questa distinzione sia facile in assoluto, poiché è evidente che diffondere la conoscenza dell’ente e delle sue attività può sempre avere anche un riflesso più o meno velatamente propagandistico: e tuttavia, per difficile che fosse, questo doveva essere l’obiettivo primario.
Se alla luce di queste considerazioni prendiamo in esame la legge n. 150 del 2000, ci rendiamo subito conto che le direttrici su cui si è mosso il legislatore corrispondono molto parzialmente a quanto si è venuti sin qui dicendo.
Sin dal titolo (“disciplina delle attività di informazione e di comunicazione delle pubbliche amministrazioni”, infatti, la distinzione fondamentale che attraversa la legge n. 150 del 2000 non è quella tra “comunicazione politica” e “comunicazione istituzionale”, ma è quella tra “comunicazione” e “informazione”: dove per “informazione” si intende (art. 1, comma 4, lett. a)) l’attività rivolta “ai mezzi di comunicazione di massa, attraverso stampa, audiovisivi e strumenti telematici”, mentre la comunicazione (quella “esterna”, cui si affianca quella “interna” tra vari uffici di ciascun ente), è intesa come l’attività “rivolta ai cittadini, alle collettività e ad altri enti attraverso ogni modalità tecnica ed organizzativa”.
La distinzione fondamentale, quindi, non concerne la natura gli scopi dell’attività (informare sull’attività dell’amministrazione piuttosto che promuovere l’immagine del politico o del partito al governo), ma i soggetti cui l’attività si rivolge: si parla di informazione se ci si rivolge ai mezzi di comunicazione di massa, di comunicazione se ci si rivolge direttamente ai cittadini.
E’ una distinzione di cui, francamente, si fatica a cogliere il senso, dal momento che non si comprende cosa differenzi l’attività di comunicazione che si svolge per il tramite dei mezzi di comunicazione di massa e quella con cui l’amministrazione si rivolge direttamente ai cittadini, per esempio divulgando direttamente notizie tramite il proprio sito internet o pubblicando una newsletter.
Fatto sta che tutta la struttura della legge n. 150 si fonda su questa distinzione, cui si ricollega anche la distinzione tra le diverse “strutture” deputate ad occuparsi della informazione e comunicazione pubblica.
Ed infatti, ai sensi dell’art. 6 della legge n. 150, “le attività di informazione si realizzano attraverso il portavoce e l’ufficio stampa e quelle di comunicazione attraverso l’ufficio per le relazioni con il pubblico, nonché attraverso analoghe strutture quali gli sportelli per il cittadino, gli sportelli unici della pubblica amministrazione, gli sportelli polifunzionali e gli sportelli per le imprese”.
Tale distinzione poi si riflette sui differenti titoli richiesti per lo svolgimento delle funzioni: per quanto riguarda le amministrazioni dello stato, tali titoli sono previsti dal d.P.R. n. 422 del 2001 “”regolamento recante norme per l’individuazione dei titoli professionali del personale da utilizzare presso le pubbliche amministrazioni per le attivita’ di informazione e di comunicazione e disciplina degli interventi formativi”.
Per quanto riguarda l’esercizio della attività di “comunicazione”, l’art. 2 del regolamento richiede, per i dirigenti degli uffici per le relazioni col pubblico e delle altre strutture contemplate dall’art. 6 della l. n. 150, il possesso “del diploma di laurea in scienze della comunicazione, del diploma di laurea in relazioni pubbliche e altre lauree con indirizzi assimilabili, ovvero, per i laureati in discipline diverse, del titolo di specializzazione o di perfezionamento post-laurea o di altri titoli post-universitari rilasciati in comunicazione o relazioni pubbliche e materie assimilate da università ed istituti universitari pubblici e privati, ovvero di master in comunicazione conseguito presso la Scuola superiore della pubblica amministrazione e, se di durata almeno equivalente, presso il Formez, la Scuola superiore della pubblica amministrazione locale e altre scuole pubbliche nonché presso strutture private aventi i requisiti di cui all’allegato B al presente regolamento”; sono poi previsti particolari percorsi formativi per il personale già in servizio che non possieda tali titoli.
Per quanto riguarda invece lo svolgimento dell’attività di “informazione” nell’ambito degli “uffici stampa”, l’art. 3 del regolamento, sviluppando l’indicazione già contenuta nell’art. 9, comma 2, della l. n. 150, stabilisce che l’esercizio di tale attività “è subordinato, oltre al possesso dei titoli culturali previsti dai vigenti ordinamenti e disposizioni contrattuali in materia di accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni, al possesso del requisito della iscrizione negli elenchi dei professionisti e dei pubblicisti dell’albo nazionale dei giornalisti”, limitatamente, però, al “personale che svolge funzioni di capo ufficio stampa”, nonché (comma 2) “per il personale che, se l’organizzazione degli uffici lo prevede, coadiuva il capo ufficio stampa nell’esercizio delle funzioni istituzionali, anche nell’intrattenere rapporti diretti con la stampa e, in generale, con i media”.
Nessun requisito particolare, invece, è stabilito per il “portavoce”, cioè per quel soggetto, che può essere “anche esterno all’amministrazione”, e che è chiamato (art. 7 l. n. 150) a “coadiuvare” l’organo “di vertice” dell’amministrazione pubblica “con compiti di diretta collaborazione ai fini dei rapporti di carattere politico-istituzionale con gli organi di informazione”.
Dunque, per riassumere, abbiamo da un lato l’attività di comunicazione rivolta direttamente ai cittadini, per cui si richiedono competenze nel campo delle scienze della comunicazione e delle relazioni pubbliche acquisite essenzialmente in abito universitario o attraverso specifici percorsi di formazione; dall’altro abbiamo l’attività di informazione, rivolta ai mezzi di comunicazione di massa, che si articola in due figure distinte: quella del capo ufficio stampa e dei suoi diretti coadiutori, per cui si richiede l’iscrizione all’albo professionale, e quella del portavoce, per cui invece non è richiesto alcun titolo specifico.
La distinzione tra informazione e comunicazione, come formulata nella legge n. 150, solleva molti dubbi, così come molti dubbi solleva la diversità dei requisiti.
Ci si può chiedere, infatti, perché l’iscrizione all’ordine è richiesta solo per gli uffici stampa (che divulgano informazioni ai media), nonostante anche nell’ambito degli URP rientrino molte attività qualificabili come “informazione”; ovvero perché è richiesta per gli uffici stampa e non per il portavoce.
Il senso dell’obbligo di iscrizione che emerge da questo quadro non è univoco.
Da un lato, infatti, sembra che l’iscrizione all’albo sia richiesta essenzialmente in forza dell’esigenza di assicurare particolari competenze tecniche; in questo senso il fatto che l’iscrizione sia richiesta agli operatori degli uffici stampa si giustificherebbe in base alla considerazione che costoro sono chiamati a interfacciarsi con i media, cioè con gli operatori professionali dell’informazione, e quindi devono, per così dire, “parlare la stessa lingua”; e in questa prospettiva si spiega perché, anche se la legge non lo richiede affatto, spesso si tenda a reclutare anche il portavoce tra i giornalisti iscritti all’ordine.
D’altro lato, però, il fatto che l’iscrizione all’ordine sia richiesta, tra le due figure che si occupano di “informazione”, solo agli operatori degli “uffici stampa”, e non ai portavoce, sembra far emergere una diversa e più profonda ragione, e cioè l’esigenza di assoggettare pienamente gli operatori degli uffici stampa agli obblighi deontologici della categoria e alla giurisdizione disciplinare dell’ordine, a garanzia della correttezza, dell’imparzialità e dell’indipendenza nell’esercizio della funzione informativa.
La legge non scioglie questa ambiguità, e le due figure, che da un lato sembrano (e dovrebbero essere) nettamente distinte, d’altra parte tendono continuamente a sovrapporsi e a confondersi.
Leggiamo le disposizioni che la legge dedica alle due figure.
L’art. 7 si occupa del portavoce, e stabilisce che ”l’organo di vertice dell’amministrazione pubblica può essere coadiuvato da un portavoce, anche esterno all’amministrazione, con compiti di diretta collaborazione ai fini dei rapporti di carattere politico-istituzionale con gli organi di informazione. Il portavoce, incaricato dal medesimo organo, non può, per tutta la durata del relativo incarico, esercitare attività nei settori radiotelevisivo, del giornalismo, della stampa e delle relazioni pubbliche” (comma 1); al portavoce “è attribuita una indennità determinata dall’organo di vertice nei limiti delle risorse disponibili appositamente iscritte in bilancio da ciascuna amministrazione per le medesime finalità”.
L’art. 9 si occupa invece degli uffici stampa, prevedendo (comma 1) che “le amministrazioni pubbliche (…) possono dotarsi, anche in forma associata, di un ufficio stampa, la cui attività è in via prioritaria indirizzata ai mezzi di informazione di massa” (comma 1); gli uffici stampa (comma 2) “sono costituiti da personale iscritto all’albo nazionale dei giornalisti”, e la relativa “dotazione di personale” è costituita “da dipendenti delle amministrazioni pubbliche, anche in posizione di comando o fuori ruolo, o da personale estraneo alla pubblica amministrazione (…) utilizzato con le modalità di cui all’articolo 7, comma 6, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29” (si tratta della norma che detta le condizioni per il conferimento di incarichi di lavoro autonomo a professionisti esterni) [1]; la direzione dell’Ufficio stampa è affidata (comma 3) a “un coordinatore, che assume la qualifica di capo ufficio stampa, il quale, sulla base delle direttive impartite dall’organo di vertice dell’amministrazione, cura i collegamenti con gli organi di informazione, assicurando il massimo grado di trasparenza, chiarezza e tempestività delle comunicazioni da fornire nelle materie di interesse dell’amministrazione”. Il comma 4 stabilisce le incompatibilità: “i coordinatori e i componenti dell’ufficio stampa non possono esercitare, per tutta la durata dei relativi incarichi, attività professionali nei settori radiotelevisivo, del giornalismo, della stampa e delle relazioni pubbliche” (salve deroghe previste dalla contrattazione collettiva), e il comma 5 si occupa appunto dei profili contrattuali, istituendo una “speciale area di contrattazione” caratterizzata da “l’intervento delle organizzazioni rappresentative della categoria dei giornalisti”.
Questa è la disciplina di legge, integrata, come si è visto, dalle previsioni del regolamento adottato con d.P.R. n. 422 del 2001, il quale, peraltro, si limita a confermare il requisito della iscrizione all’albo e a specificare a quali, tra le figure operanti negli uffici stampa, si richiede il possesso di tale iscrizione (e cioè, oltre al capo, al personale che lo coadiuva direttamente “nell’esercizio delle funzioni istituzionali” e “nell’intrattenere rapporti diretti con la stampa e, in generale, con i media”). Da tale quadro emergono una serie di differenze importanti, e però anche alcuni profili di ambiguità, che come vedremo fanno sì che tuttora le due figure non siano nettamente distinte e tendano a sovrapporsi.
Per quanto riguarda i profili di differenza, essi come si è detto sono molteplici.
a) Il portavoce coadiuva il (solo) “organo di vertice”, mentre gli uffici stampa svolgono le loro attività per “le amministrazioni, anche in forma associata”: il portavoce è strumento del vertice politico, l’ufficio stampa rappresenta l’amministrazione nel suo insieme e può anche operare congiuntamente per più amministrazioni (pensiamo ad un consorzio di comuni), anche di diverso orientamento politico.
b) Il portavoce si occupa esclusivamente dei “rapporti di carattere politico-istituzionale con gli organi di informazione”, gli uffici stampa indirizzano la loro attività “in via prioritaria” ai “mezzi di informazione di massa”: a differenza del portavoce, gli uffici stampa possono fare anche altro oltre a curare i rapporti con i media, per esempio potrebbero svolgere anche direttamente attività informativa (ad esempio pubblicare un notiziario, gestire il sito web ecc.).
c) Il portavoce è scelto liberamente senza alcun requisito di professionalità, il responsabile dell’ufficio stampa, così come tutti coloro che lo coadiuvano direttamente, deve essere iscritto all’ordine dei giornalisti.
d) Il portavoce può essere indifferentemente “interno” o “esterno” all’amministrazione,mentre il personale degli uffici stampa deve essere in linea di principio interno all’amministrazione e può essere personale a contratto solo qualora manchino, nell’organico dell’amministrazione, professionalità adeguate.
e) Il portavoce è chiamato a “collaborare direttamente” con l’organo di vertice, cui è legato da un rapporto fiduciario, nella gestione dei “rapporti di carattere politico-istituzionale con gli organi di informazione”; gli uffici stampa, pur essendo soggetti e dovendo conformarsi alle “direttive impartite dall’organo di vertice dell’amministrazione”, hanno comunque lo specifico dovere di assicurare, nei “collegamenti con gli organi di informazione”, il “massimo grado di trasparenza, chiarezza e tempestività delle comunicazioni”, in tutte le “materie di interesse dell’amministrazione”.
f) da ultimo, per quanto riguarda il trattamento economico, il portavoce percepisce una “indennità” determinata direttamente dall’organo di vertice (pur se ovviamente nell’ambito delle risorse appositamente stanziate in bilancio), mentre il trattamento economico del personale degli uffici stampa è disciplinato dalla contrattazione collettiva.
Emerge quindi un profilo assolutamente diverso delle due figure: da un lato il portavoce, emanazione diretta dell’organo di vertice, cui è legato da un rapporto fiduciario, che può essere liberamente sostituito ogni qual volta, per le più varie ragioni tale rapporto venga meno, che non ha garanzie di ordine economico e contrattuale, e che, per converso, non è assoggettato ad alcuna responsabilità disciplinare: di fatto, a tutti gli effetti, uno strumento del vertice politico.
Dall’altra parte, l’ufficio stampa, emanazione dell’amministrazione nel suo complesso, formato ove possibile da personale dipendente assunto mediante concorso e con connotazioni di stabilità, soggetto, come è ovvio, alle direttive dell’organo di vertice come ogni altro ufficio amministrativo, ma assoggettato anche a specifici obblighi deontologici a garanzia della chiarezza e della trasparenza della relativa funzione informativa, al servizio, quindi, non già del vertice politico, ma essenzialmente dell’amministrazione in sé e soprattutto degli amministrati.
Se per i profili di cui si è detto le due figure sembrano dover restare nettamente distinte, non si possono però ignorare gli elementi di confusione che la stessa legge introduce.
a) Un primo elemento di confusione è rappresentato dal fatto che la legge, attribuendo come si è detto un (discutibile) rilievo centrale alla distinzione tra “informazione” e “comunicazione”, tende a sovrapporre e confondere, sotto il comune denominatore di “informazione”, le attività dell’ufficio stampa e del portavoce.
Tale commistione si rinviene anche nell’art. 1, comma 5 della legge, che nello specificare ed elencare i fini cui devono tendere (del tutto indifferentemente) le attività di informazione e comunicazione, accanto a compiti che indubbiamente rientrano nella funzione informativa da svolgersi nell’interesse primario del pubblico (“a) illustrare e favorire la conoscenza delle disposizioni normative, al fine di facilitarne l’applicazione; b) illustrare le attività delle istituzioni e il loro funzionamento; c) favorire l’accesso ai servizi pubblici, promuovendone la conoscenza; d) promuovere conoscenze allargate e approfondite su temi di rilevante interesse pubblico e sociale; e) favorire processi interni di semplificazione delle procedure e di modernizzazione degli apparati nonché la conoscenza dell’avvio e del percorso dei procedimenti amministrativi”), contempla anche – in totale continuità con queste – finalità che ben si prestano ad una distorsione in termini propagandistici dell’attività di informazione e comunicazione (“f) promuovere l’immagine delle amministrazioni, nonché quella dell’Italia, in Europa e nel mondo, conferendo conoscenza e visibilità ad eventi d’importanza locale, regionale, nazionale ed internazionale”).
Ora, è evidente che l’informare è una cosa, il “promuovere l’immagine” (sia pure delle “amministrazioni” e non dei politici al loro vertice) è un’altra: e forse, nel momento in cui si prevedono ben tre distinte strutture da impegnare nell’attività di informazione e comunicazione, un elemento di chiarezza poteva essere lo stabilire a chi spetti informare, e a chi promuovere l’immagine.
b) Se da un lato le funzioni e gli scopi rimangono ampiamente indistinti, anche rispetto alla posizione nella struttura amministrativa si riscontrano elementi di confusione: sia il portavoce che l’ufficio stampa, in particolare, “possono” essere costituiti, e quindi vengono presentati come organi non necessari, senza alcuna differenza. L’amministrazione potrebbe quindi dotarsi, indifferentemente, di uno e non dall’altro, di entrambi, o di nessuno dei due.
Ciò fa sì che, se leggendo la legge si ha l’impressione che l’ufficio stampa debba connotasi per una maggiore stabilità, di fatto si configura un’amplissima discrezionalità delle amministrazioni nel definire anche i compiti rispettivi: se sono libero di istituire o non istituire l’uno o l’altro, sono altresì libero di attribuire all’uno i compiti che dovrebbero essere dell’altro e viceversa.
c) Anche la disciplina delle incompatibilità è assolutamente identica: sia il portavoce sia l’operatore dell’ufficio stampa non possono, per tutta la durata dei relativi incarichi, “esercitare attività nei settori radiotelevisivo, del giornalismo, della stampa e delle relazioni pubbliche”; e tale identità di disciplina tende ad accreditare l’idea di una sostanziale identità di funzioni. In realtà l’incompatibilità dovrebbe avere una funzione del tutto diversa (il portavoce non può fare il giornalista perché fa altro, l’addetto stampa non può fare il giornalista preso altri media perché lo fa in modo esclusivo per la pubblica amministrazione), ma tale diversità non traspare in alcun modo.
In sostanza, ed in conclusione, le tre “strutture” che secondo la legge, si occupano di informazione e comunicazione, non sono in alcun modo differenziate rispetto al loro riferirsi al profilo istituzionale dell’ente: il portavoce, al pari dell’ufficio stampa e dell’Urp, è presentato come uno dei protagonisti della comunicazione istituzionale, in una posizione di sostanziale parità, di “pari dignità”, per così dire, rispetto alle altre due.
La c.d. “direttiva Frattini”, nel prevedere la necessità di uno stretto coordinamento tra le tre figure del portavoce, del capo ufficio stampa e del responsabile dell’Urp, tendeva proprio ad accreditare l’idea che le tre figure siano pienamente equivalenti, e che le rispettive funzioni siano pienamente riconducibili ai medesimi principi, senza in alcun modo attribuire rilievo alla distinzione tra il livello “politico” e quello propriamente “istituzionale”.
Il risultato è, quindi, una situazione di notevole confusione, di cui si riscontrano diversi sintomi.
a) Da un lato, la tendenza a scegliere anche i portavoce tra i giornalisti, se da un lato è pienamente legittima e comprensibile in quanto motivata da considerazioni di ordine tecnico – professionale, non deve mai portare a dimenticare che, rispetto all’ordinamento professionale, l’addetto stampa e il portavoce sono su posizioni esattamente opposte: l’operatore dell’ufficio stampa, nel momento in cui svolge la sua attività, è e rimane un professionista iscritto, il portavoce, nel momento in cui assume tale incarico e fino a quando lo conserva, non è soggetto – e non deve esserlo) agli obblighi deontologici e ai poteri disciplinari dell’ordine.
b) Altra tendenza discutibile è quella ad abusare della possibilità (che la legge ammette solo in via eccezionale e residuale) di conferire l’incarico di responsabile dell’ufficio stampa ad un esterno, in modo da introdurre anche nella gestione degli uffici stampa la pratica del c.d. spoil system, che invece la legge sembrerebbe escludere. Capita così che insieme al portavoce anche i responsabili dell’ufficio stampa vengano integralmente sostituiti nel momento in cui cambia il vertice politico dell’amministrazione, così come può accadere che il portavoce si veda attribuire la funzione di capo ufficio stampa o viceversa.
c) Anche rispetto ai percorsi formativi per la preparazione di queste figure si riscontra la stessa ambiguità: se si analizzano i programmi dei numerosi corsi organizzati anche dai soggetti cui specificamente è deputata l’attività di formazione dei “comunicatori pubblici”, il profilo professionale del portavoce e quello del responsabile dell’ufficio stampa sono per lo più assolutamente indistinguibili.
La difficoltà di mantenere una netta demarcazione tra comunicazione politica e comunicazione istituzionale è aggravata infine dall’assenza di organismi deputati al controllo sul rispetto dei confini tra comunicazione istituzionale e politica (si v. la segnalazione rivolta dall’AGCOM al governo alla fine del 2000).
E’ evidente che la principale vittima di questa situazione di confusione è proprio la struttura cui la legge, nel prevedere l’obbligo di iscrizione all’ordine per i suoi addetti, sembrava aver attribuito il compito più delicato e sensibile: cioè l’ufficio stampa, il quale rischia di rimanere una struttura ibrida, anfibia, a metà strada tra la funzione servente rispetto al potere politico (il portavoce) e un’informazione burocratica, asettica e impersonale (URP).
Al contrario, proprio la definizione del compito e della missione dell’ufficio stampa, rispetto agli altri attori della comunicazione pubblica, si rivela essenziale per dare piena attuazione allo spirito che ha indotto a dettare una disciplina della comunicazione nelle pubbliche amministrazioni, che non era certo quello di promuovere con risorse pubbliche l’immagine dei politici ad ogni livello, ma quello di dare piena attuazione dei principi costituzionali di imparzialità e buon andamento della p.a. (art. 97 cost,), contribuendo a costruire una amministrazione più trasparente, più efficiente, più vicina al cittadino e, in una parola, più democratica.
-Marco Cuniberti-
Pubblicato da Redazione