Ecco cosa succedeva durante la seconda guerra mondiale da parte di certi se dicenti “liberatori”

Un po’ di storia da chi l’ha vista e quindi vissuta:

Chiarire come andarono veramente i fatti”e sarebbe proprio giusto. , commenta  certo  M. D.(nato 30 anni dopo) a mezzo di articolo di un giornalista evidentemente dagli occhi bendati, ma ambedue  lo fanno solamente da “bastian contrari” a seguito di un nostro articolo per la triste ricorrenza del 18 agosto 1944.

Non essendo  però affatto d’accordo quando si legge in un articolo  su preciso argomento visto e vissuto,  mentre quel commentatore nasceva dopo 30 anni dai fattacci, che:

– “Serve anche a evitare che si gettino fango e sospetti sui ragazzi della FSS (Field Security Section, la Polizia britannica), a cui erano aggregati numerosi anghiaresi tra i 17 e i 25 anni. Sicuramente vivaci, sicuramente inesperti, sicuramente non impeccabili come tutti gli esseri umani, comprensibilmente orgogliosi dei lunghi mesi alla macchia prima e della collaborazione con l’esercito inglese poi”, continua  Draghi, “ma che certo non meritano di essere discreditati sulla base di interpretazioni infondate”.

-“Queste letture revisioniste”,  spiega ancora, “hanno insinuato dei dubbi basati su ricostruzioni fantasiose e notizie assolutamente inesatte”.

Riteniamo quindi, a questo punto,  ancora necessario qualche rigo per ricordarli a quel signore ed  a certi altri personaggi, evidentemente poco al corrente  della  storia relativa alla  loro cittadina.

“”Anghiari  era ormai indifendibile e i tedeschi l’evacuarono nella notte dal 28 al 29 luglio 1944. Proprio in quelle ore la 25a brigata indiana subentrava alla 20a  e,  con loro, partecipò anche in modo determinante il Secondo Corpo di Armata Polacco, agli ordini del generale Wladyslaw Anders””.

A fare il loro ingresso ad Anghiari, la sera del 29, furono quindi:  le avanguardie delle truppe punjabi.

In Anghiari liberata, il governatore alleato nominò sindaco il giovane di origine milanese Bruno Rasarivo.

Tra i membri della giunta, lo affiancò  Antonio Ferrini, punto di riferimento dei partigiani alla macchia di Anghiari e Sansepolcro.

Ferrini collaborò anche all’organizzazione della Field Security Section (FSS) anghiarese, il servizio di polizia nel quale gli Alleati arruolarono i partigiani locali.

Occorre renderci conto che, in quegli anni di guerra,  esistevano due gruppi politici : “fascisti ed antifascisti”, i dittatori ed i liberatori.

Sappiamo e conosciamo bene i comportamenti di ambedue e certe loro crudeltà che sorgono durante le ‘maledette’ guerre: “Esecuzioni, torture, stupri, ruberie di ogni genere”.

La Resistenza mirava alla dittatura  con  le atrocità in nome di Stalin che “non erano diverse dalle efferatezze fasciste”, anche se qualcuno ancora lo nega.

I racconti dei comportamenti di una  sporca  guerra attuati da certi se dicenti liberatori e dai fascisti,  sembra abbiano  fatto  infuriare le “vestali della Resistenza”, sottolineando le storie dei vinti e i soprusi dei presunti liberatori, in realtà desiderosi di sostituire una dittatura con un’altra, la loro.

Si, tanto alcuni dei liberatori quanto  i miliziani fascisti combattevano per la bandiera di due dittature: una rossa e l’altra nera; le loro ideologie erano entrambe autoritarie.

E li spingevano a fanatismi opposti, uguali pur essendo contrari, un tipo di conflitto che escludeva la pietà e rendeva fatale qualunque violenza.

Pure i “liberatori” avevano ucciso persone innocenti e inermi sulla base di semplici sospetti, spesso infondati, o sotto la spinta di un cieco odio ideologico, avevano provocato le rappresaglie dei tedeschi, sparando e poi fuggendo.

Avevano torturato i fascisti catturati prima di sopprimerli,e quando si trattava di donne, si erano concessi il lusso di tutte le soldataglie: lo stupro, spesso di gruppo.

A conti fatti, anche certa “resistenza” si era macchiata di orrori.

Quelli che il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ricorderà nel suo primo messaggio al Parlamento, il 16 maggio 2006, con tre parole senza scampo:

«Zone d’ombra, eccessi, aberrazioni».

Un’eredità pesante, tenuta nascosta per decenni da un insieme di complicità e per l’opportunismo politico che imponeva di esaltare sempre e comunque la lotta di resistenza mentre  era evidente la passività degli altri partiti antifascisti, timorosi di scontrarsi con la poderosa macchina stalinista, la sua propaganda, la sua energia nel replicare colpo su colpo.

Soltanto una piccola frazione della classe dirigente italiana si è posta il problema di capire che cosa si nascondeva dietro il sipario di una storia contraffatta della nostra guerra civile iniziando a farsi delle domande a proposito del protagonismo  della Resistenza che  voleva essere la forza numero uno della guerra di liberazione.

In un recente studio, Luciana Brunelli ricordava un’affermazione di George Orwell:

“Come tutti sanno, la guerra attrae la canaglia”.

Orwell si riferiva  alla guerra civile spagnola ma,  secoli di conflitti hanno dimostrato l’universalità di tale asserzione.

Né può fare eccezione la Resistenza armata contro il nazi-fascismo. Troppo allettante, infatti, l’opportunità che offriva la vita randagia alla macchia a chi, senza scrupoli e senza ideali, si infiltrava di nascosto  nelle bande partigiane per compiere ruberie e, talora, vendette.

Anche nell’Alta Valle del Tevere la Resistenza è stata “inquinata” da alcuni episodi e personaggi, che comunque si rivelano delle eccezioni in uno scenario di integrità etica della lotta.

Un caso eclatante testualmente,  tratto da   Storia Tifernate ed altrodi  Alvaro Tacchini  che così scriveva:

fu quello del  fiorentino Ermete Nannei, bollato comeelemento poco raccomandabile”, “profittatore” e “avventuriero della guerriglia”. Nannei, che si mosse tra la Valtiberina, Badia Tedalda e Sestino, approfittò di una requisizione di generi alimentari alla fattoria di Aboca per sottrarre e occultare argenteria.

-Il controverso liberatore  sarebbe stato poi giustiziato dai compagni della banda “Francini” di Sansepolcro e la refurtiva fu restituita ai proprietari alla fine del 1945.

-Sull’Alpe di Catenaia la formazione di “Tifone” nel marzo 1944 catturò due inglesi “che vivevano di rapina e si spacciavano per partigiani”.

Nell’Anghiarese non godette di gran fama il “Russo”, che capeggiava l’omonima banda. Si verificarono “spiacevoli episodi di banditismo” anche nella zona di Marzana e Monte Favalto, tanto che il comandante partigiano Aldo Donnini raccontò di aver “disarmato e legnati di santa ragione due banditi” che operavano nella zona.

-A giugno la formazione dello stesso Donnini “sorprese tre banditi” a Montemercole, costringendoli alla fuga e ad abbandonare armi e denaro.

Nella Rassinata uomini della Brigata “Pio Borri” giustiziarono un compagno di lotta, accusato di aver commesso una rapina e altre scorrettezze.

Piero Signorelli, che ben conosceva uno degli autori dell’esecuzione, ricorda il rigore morale imposto dalla “Pio Borri”: “Non si toccava niente noi della Resistenza. Per quanto riguarda la disciplina e la correttezza, al nostro interno non si perdonava”.

-Tre giovani della valle del Nestoro e un cortonese che per circa 40 giorni comandò la banda di Badia Petroia non sarebbero stati riconosciuti partigiani combattenti nel dopoguerra, in quanto “indegni per furto commesso durante l’attività di partigiani”.

-L’ex comandante di Cortona, denunciato per le ruberie, uscì dal carcere dopo 14 mesi per amnistia. Altri sedicenti liberatori lasciarono un brutto ricordo sulle montagne tra il Cortonese e il Tifernate. Don Giovanni Salvi, che pure riconobbe i “nobili sentimenti” dei tanti giovani alla macchia, dette voce al malessere della popolazione vittima di questi impostori:

-“Spesso si vedevano gironzolare degli individui armati che incutevano timore alla popolazione perché, spinti o dalla fame o dal vagabondaggio, facevano sgradite visite nelle case dove sapevano di trovare danaro o generi per la banda o per i loro fini particolari”.

Episodi imbarazzanti avvennero anche immediatamente a ridosso dell’Alta Valle del Tevere. Testimone attento e partecipe di quanto avveniva sul versante orientale del Casentino, il giornalista Renzo Martinelli scrisse:

-“Molti, più di quanti non si possa calcolare, sono i falsi partigiani, i ladri da strada maestra, che si buttano in mezzo al sacrificio dei patriotti, usurpano la loro qualifica, e, qualche volta, le loro divise”.

-In Val Marecchia la banda del ligure Giorgio Cordonet – una dozzina di uomini “quantomeno equivoci” – per un certo periodo effettuò delle requisizioni millantando attività partigiana e “ingenerando nella popolazione diffamazione ed una comprensibile diffidenza verso i veri partigiani”. Intervenne la 8a brigata romagnola e impose il rispetto dei rigidi criteri di comportamento che adottava per approvvigionare gli uomini alla macchia.

Inoltre, quella che venne definita “una pericolosa attività di bandito” vide protagonista nel Montefeltro Aldo Ricci, già milite fascista, poi alla macchia, infine disertore dalle file della Resistenza, che fu alla fine giustiziato dagli stessi partigiani della zona.

-Affrontò il problema pure il tifernate Giulio Pierangeli, padre di Stelio, comandante della “San Faustino”: “A Bonsciano alcuni sedicenti ribelli si fecero consegnare una somma cospicua dalla marchesa Prosperini, ma l’intervento dei veri ribelli li costrinse alla restituzione”.

Laddove il sostentamento degli uomini alla macchia richiedeva il prelievo forzoso di generi alimentari, bestiame, vestiario e persino denaro, agire correttamente significava rilasciare una ricevuta che elencava quanto prelevato e avrebbe dovuto essere esibita per il rimborso a guerra finita. In tanti casi, comunque, restava in chi subiva la requisizione il senso di una spoliazione arbitraria, che purtroppo si aggiungeva alle ruberie germaniche.

fonte: Storia Tifernate ed altro- di  Alvaro Tacchini-

Pubblicato da Redazione